
Ho trascorso tre giorni (+1, perché il trauma richiede tempo per essere elaborato) immerso nel Racquet Trend di Milano Rho, la fiera degli sport da racchetta. Tra stand monumentali e messaggi più criptici di un geroglifico egizio, ho assistito a uno spettacolo affascinante: il tentativo eroico, ma spesso tragicomico, di farsi notare.
Da esperto di comunicazione e creativo, ho percepito un desiderio palpabile di emergere, un’ansia da prestazione pubblicitaria che a volte si traduceva in urla sgraziate o, peggio ancora, in un sussurro imbarazzato. Insomma, l’eterno dilemma della fiera: parlare forte senza dire nulla o bisbigliare qualcosa che nessuno capisce. Perché studiare una strategia prima, quando puoi improvvisare e sperare nel miracolo?
l problema principale? Un caos cromatico e testuale che farebbe impallidire persino un artista dadaista. Alcuni brand puntano tutto sulla potenza visiva – colori sgargianti, font che sembrano usciti da un meme del 2008, claim vagamente motivazionali che ti lasciano con più domande che risposte. Altri invece, forse per paura di osare, scelgono il minimalismo estremo, finendo per sembrare lo stand di un’assicurazione piuttosto che di un marchio sportivo.
Risultato? Tanto rumore, zero musica. Un’orgia visiva in cui il consumatore viene colpito da messaggi contrastanti e da scelte stilistiche che vanno dal “troppo poco” al “troppo tutto”. E se chiedi a qualcuno: “Scusa, ma tu cosa vendi esattamente?”, spesso ti rispondono con un’aria interrogativa, come se fosse ovvio. Perché per loro, in effetti, lo è. L’allestimento dello stand, nella loro testa, dovrebbe parlare da solo. Loro lo sanno benissimo, hanno vissuto ogni dettaglio di quel prodotto o servizio, e sono sinceramente stupiti dal fatto che il visitatore non colga tutto al primo sguardo. Il problema? Quel primo sguardo spesso si perde tra troppe scelte sbagliate. La comunicazione in fiera è un po’ come un match di Padel (per rimanere in tema) senza punteggio: tutti corrono, nessuno sa chi sta vincendo.
Eppure, tra questo marasma semiotico, ci sono delle perle rare: brand che sanno chi sono, che non hanno bisogno di neon lampeggianti per farsi notare e che riescono a farti capire in due secondi perché dovresti interessarti a loro. Quei brand non urlano: parlano con autorevolezza. Non si buttano su effetti speciali a caso, perché sanno che l’eleganza della semplicità vince sempre sul caos della confusione.
Sono i brand che, anziché giocare alla lotteria del marketing, hanno studiato. E si vede. E soprattutto, si sente.
Per me, il vero valore di un evento come questo non è solo osservare chi affonda e chi galleggia, ma trovare quei momenti in cui si può parlare davvero. Ho scoperto che la fiera, più che una battaglia di luci e suoni, può essere un salotto informale in cui stringere mani, scambiare battute, capire chi c’è dietro un logo. Non serviva la giacca e cravatta, bastava un sorriso onesto e una conversazione con un minimo di senso.
Ed è qui che la comunicazione vera fa la differenza. Non è solo questione di stand imponenti o slogan da guru della motivazione, ma di esperienza, autenticità e relazioni umane. E questa è la lezione che mi porto a casa: alla fine, il marketing migliore è quello che non sembra marketing. Il resto è rumore di fondo.